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Se l’Io è, per definizione gestaltiana, la “funzione di adattamento creativo” (Fritz Perls, 1951) o, secondo il poi completato contributo di Freud, la struttura psichica deputata alla “mediazione” tra le istanze pulsionali e quelle societarie, è anche teatro dove il costante “dramma” del vivere alterna scene svolte dietro il sipario delle dinamiche interne o sul palco delle relazioni sociali.
In tutto questo investimento energetico ed emozionale, l’uomo tende, pena l’insanità psichica, a mantenere un punto fermo, un nucleo centrale ed inamovibile dell’identità personale, che gli consente l’apparente ossimoro dell’essere sempre fermo nel divenire degli eventi e sempre uguale nella molteplicità dei ruoli e delle azioni. Tale competenza omeostatica il mediatore deve sia considerare sia stimolare, valutando quanto si presenti faticosa, per una coppia che si divide e per una famiglia che si destruttura, una ridefinizione dell’esistenza personale, una rinegoziazione di diritti e doveri, aspettative e impegni, una ridelimitazione delle linee di confine intra ed interpersonali.
Partendo da un breve vaglio teorico fino al racconto di tre reali esperienze di vita e di professione, che non escludono momenti di intensa riflessione sulla bellezza della persona, il nuovo istituto della mediazione familiare, nella sua funzione conciliativa e negoziale in favore di coppie che abbiano attuato o prevedano la separazione, e nel suo intento di garantire ai figli, veri vinti in una battaglia senza vincitori, la percezione di continuità di quell’amore che è fonte di equilibrio e di crescita.